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Buffet da “Pepi” o da “Pepi s’ciavo”.
Togliere “s’ciavo” dal nome del locale Buffet da Pepi s’ciavo con Buffet da Pepi l’ho vissuto come una delle prime fratture, tagli netti e dolorosi con ciò che era e non sarà più. La leggerezza della presa in giro anche con termini dialettali, gergali che creavano appartenenza. Codici linguistici che non servivano in casa mia per dividere ma creavano una complicità fraterna. Ciò che si può dire e ciò che non va detto solo per un bon ton politicamente corretto non era nelle mie corde. Avrei dovuto accettare di non poter essere più libero di dire senza essere giudicato. Difficile parlare di questo se non attraverso il vissuto soggettivo, di famiglia: i ricordi, gli sguardi, i gesti… Il linguaggio.
Le stesse parole dialettali possono dividere, ferire o accogliere. “Mona”, “cifariel”, “sciavo”, “sempio”… Nel dialetto che Svevo insegna essere la lingua senza mediazione, quella dell’anima, quella sincera ed intima il valore del tono ancor più il momento il luogo la situazione contano. Trasformano il valore e il peso del significato andando ben al di la di una traduzione spesso inutile.
Traduco “mona”: traduzione volgare dell’organo femminile ma significa anche stupido.
In famiglia, fra amici: ”son sta proprio mona la gò proprio combinada e cussì la me gà lassà in porton…” TRADOTTO: sono stato proprio stupido mi ha lasciato nell’atrio del portone… Nessuno si offenderà per questo “mona”. “Ma cossa là xe mona a parcheggiar l’auto in sto modo no la vedi che no posso passar?” TRADOTTO: ma è stupido che parcheggia l’automobile che non posso passare? La parola è la stessa ma è detta per rimproverare, lasciare un segno, offendere.
Ricordo che in cinese una stessa parola “Ni hao” significa: ciao, urina, casa, mamma a seconda del tono con il quale viene emessa. Per me occidentale e con la mia formazione ed educazione solo il dubbio di accedere ad un tono non consono è già un incubo.
Erano gli anni nei quali si andava da “Pepi Sciavo” con papà per “el rebechin” la merenda delle 10 / 11 della mattina; come i veri uomini, io avevo 10 anni forse anche meno. Era come l’osteria dove andavo orgoglioso ad avvertire il nonno impegnato a giocare a briscola o tresette per arrivare con perfetto tempismo a cena dalla nonna. Un posto dove la rude benevolenza ti metteva al pari delle età dei presenti. Dovevi entrare essere sicuro di te stesso e ordinare a voce decisa: “Panin de prozina”. Pantaloncini corti calzettoni scarpe lucide il mio spesso era con un po’ di vergogna: “Panin de porcina”. Slittando sulla “z” e la “c”.
Da “Pepi s’ciavo” si andava anche d’estate ma mai in agosto mese canonico di astinenza per chiusura.
Passavano gli anni e Papà e zia erano nati a Ustrine in quegli anni il paesetto era politicamente Italia anche mio nonno era nato a Ustrine e nonna di Belej su Cherso ( che ora devo ricordare di chiamare Cres ) ma in Austria-Ungheria. Tutti trasferiti a Trieste negli anni 30 che oramai era Italia. Nonno imbarcato sul Lyoid Adriatico di navigazione, nonna casalinga e papà con la guerra sempre in volo sui Savoia Marchetti a bombardare anche la Jugoslavia. Molto inconsapevolmente aviatore marconista e fascista molto, molto più consapevole ballerino di tip tap. A guerra finita una sorella, figlia in meno ed erano improvvisamente tutti italiani. Non “taliani” che erano gli altri. Non si arrivava al fiume Po come confine della “civiltà” per la nonna Anna da quello degli altri. Bastava il vecchio dazio a pochi km da Monfalcone. Gli altri erano i “foresti” i “cifariei”. Bastava avessero un accento diverso dal triestino per essere classificati nella categoria dei “da diffidare”.
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